COLLABORAZIONE Pastorale di Cormòns - Parrocchie di Borgnano, Brazzano, Dolegna del Collio e Cormòns
INIZIO A MAMSHIT (DESERTO DEL NEGHEV): Per due settimane proviamo ad essere una tabula rasa, una pagina vuota, sulla quale, per una volta, sia Gesù a scrivere qualche cosa. LasciamoLo disegnare, permettiamogli di lasciare una sua traccia su di noi e dentro di noi, nella certezza che ogni tocco di Dio, anche minimo, è già di per sé un capolavoro. Anche se non siamo una pagina bianchissima, tagliata bene, ma con le orecchie ai bordi e qualche cancellatura un po’ troppo evidente, non importa: noi tentiamo di diventare una pagina vuota, e Dio farà il resto. Padre Iuri, la nostra guida gesuita, ci viene subito in aiuto in questo, portandoci in un posto antichissimo dove i popoli nomadi come i Nabatei sono passati senza poter sostare a lungo. Iniziamo ad immergerci nella logica del profeta Geremia, ossia quella di un rapporto non convenzionale con Dio, osservando gli Wadi, i torrenti del deserto che si formano e scompaiono con la stessa velocità, dando vita ed uccidendo, inondando e travolgendo. Essi, come Dio, sfuggono al nostro controllo: se non ci sono, ci mancano, ma quando ci sono, non si presentano come li vorremmo noi.
EN AVEDAT:Il deserto continua a metterci alla prova: non è facile attraversarlo nelle ore più calde del giorno, quando il corpo stesso ci spinge al limite. Anche nella Bibbia diverse persone si sono spinte al limite, primo tra tutti Abramo, che, dopo un’esistenza mediocre, capovolge la sua vita e genera una discendenza in età più che avanzata, ma anche Agar in fuga ed Ismaele che muore di sete. Tuttavia, anche nell’aridità più estrema Dio fa sgorgare l’acqua e fa convivere due bellezze contrapposte ma così incredibilmente intersecate tra loro: Hain Barat, la sorgente nel deserto, lo specchio d’acqua dove scorgere non il proprio volto, come Narciso, bensì il volto stesso di Dio, i cui occhi lucidi di affetto sono costantemente posati su di TE in particolare, come se non esistessero altre creature su tutta la Terra all’infuori di te.
TEL BE’ER SHEVA ED EILAT (MAR ROSSO):Ci immaginiamo come Gesù debba aver vissuto i suoi deserti, in luoghi in cui le parole ed i pensieri non vanno sprecati così come l’acqua. Capiamo come il sudore, la sete, e la bellezza senza fronzoli della roccia e della polvere ci riportino all’essenziale, alla nudità della nostra anima che non è fatta per chiudersi in sè. In fondo, non sono poi così fuori luogo gli elicotteri dell’esercito israeliano che sfrecciano sopra la nostra testa in questo luogo quasi mistico. Non sono fuori luogo perché la vita stessa non è fatta di situazioni perfette, incantate, fuori dal tempo e dallo spazio, ma di contrasti da armonizzare, di esigenze fisiche, di storia e delle azioni nostre e altrui. Tuttavia, camminare sotto le stelle e accompagnare con lo sguardo e con il respiro il Sole che sorge sono un regalo non scontato che ci immerge nella bellezza ti Dio e ci fa dimenticare il resto. Solo poche ore dopo, il Mar Rosso irrompe davanti ai nostri occhi quasi inaspettato. Da una bellezza, quella del deserto, ridotta all’essenza, quasi alla negazione di sé, si passa all’acqua cristallina, ai colori inimitabili dei coralli e dei pesci.
MITZBE’RAMON: Stiamo imparando pian piano a riconoscere e quasi ad aspettarci le sorprese di Dio, che oltre a far scaturire le sorgenti nel deserto, rende il deserto stesso brulicante di vita. Siamo nel Machtesh Ramon, un cratere enorme ed una fonte inestimabile di rocce, stratificazioni, fossili e specie animali che si sono adattate perfettamente ad un ambiente ostile alla vita. Il cratere, che circa duecento milioni di anni fa era sommerso dal mare, sembra un enorme libro di storia della biblioteca di Dio, a ricordarci che la storia della nostra vita, è di una brevità e di una nullità che incute timore. Eppure, proprio noi, goccioline insignificanti nell’oceano della storia, siamo i più amati…spettacolo!
MASADA: L’affetto folle ed inspiegabile che Dio nutre per noi e la nostra follia senza affetto sono una costante nella storia dell’umanità. Nel 74 d.C. a Masada, città-fortezza situata su di un altipiano di 400m che si affaccia sul Mar Morto, più di mille Ebrei zeloti hanno preferito uccidersi vicendevolmente piuttosto che cadere nelle mani dei Romani ed ammettere una sconfitta che non avevano previsto. Anche noi, noi che siamo bravi, che andiamo a Messa, che preghiamo, che facciamo volontariato, rischiamo di vivere una vita intera da finti santi e di fallire invece nella vita stessa. Corriamo il rischio di mandare tutto all’aria solo per la paura di non avere ragione e vestiamo di ideologie tutte nostre il piano d’amore di Dio. Padre, aiutaci ad usare bene la nostra libertà e a non prendere abbagli, perché è proprio essa che ci rende così terribilmente fragili.
MAR MORTO: La natura affatica ma anche rigenera: questo “mare” è davvero un dono di Dio, un luogo di cura per la pelle e per i polmoni, un concentrato di sali, ossigeno, minerali e bellezza. La concentrazione salina è talmente alta che si riesce a toccare il fondale con i piedi al massimo fino a quando il livello l’acqua arriva alla vita...e poi? Poi ci si lascia portare e si galleggia meravigliosamente, essendo sicuri che si viene portati da una forza che è più grande di noi. Il Tuo abbraccio nella nostra vita, Signore, è una magnifica spinta di Archimede che funziona in base alla nostra fiducia. Più ci rilassiamo, più ci estendiamo nell’acqua occupando la maggior superficie possibile, più l’acqua del mare ci sostiene. Abbiamo la certezza evidente che lo sguardo di Dio è sopra di noi e le Sue braccia sotto noi a sostenerci.
EN GHEDI: Ci troviamo nell’oasi in cui il futuro re Davide scelse di non uccidere il suo avversario re Saul, pur avendone la possibilità, in nome di un progetto più grande, in rispetto della scelta di Dio. Operare le proprie scelte cercando di assumere l’ottica di Dio cambierebbe in meglio la nostra vita. Lasciamo questo luogo così evocativo, rigoglioso ed improbabile nel deserto, sovrabbondante di acqua fresca, con le splendide immagini del Cantico dei Cantici, che non a caso esso è ambientato proprio qui, a ricordarci come Dio ci insegua, ci rincorra e ci trova anche quando noi ci nascondiamo a Lui.
TENT OF NATIONS:A pochi kilometri a sud di Betlemme sorge una collina particolare, in quanto unico territorio arabo cristiano circondato da cinque insediamenti ebraici appartenente alla cosiddetta“West Bank”dei territori palestinesi occupati. Questa “Tent of Nations”, resiste grazie alla volontà della famiglia di Daoud Nassar di continuare a coltivare e a vivere sulla terra che appartiene alla sua famiglia dal 1916, nonostante i numerosi atti intimidatori che le sono stati rivolti e nonostante il peso psicologico di sentirsi estranei e stranieri in casa propria. Daoud crede nella possibilità di essere costruttori di pace a partire da un terreno inteso concretamente, ovvero a partire dal rifiuto di andarsene soltanto perché è più facile. Questo ci riporta alla realtà, all’importanza di operare scelte concrete, perché le nostre azioni non finiscono con noi, bensì si proiettano a cascata nel futuro.
BETLEMME: Stavolta non è solo la Tua terra a sfidarci, Signore, ma Tu in persona, che ci provochi e ci metti in crisi. Tu ci metti con la faccia a terra, ci fai piegare e prostrare, ci fai arrivare ad un luogo nascosto che della Tua grandezza sembra non dire nulla. Persino la Tua scelta di venire al mondo a Betlemme ci sembra assurda: l’ultima città, la più sconosciuta, la più inutile tra tutte quelle che avevi a disposizione, oggi scissa anche interiormente da un muro che la divide in due. Ma grazie a Te, i miracoli silenziosi continuano anche oggi: segno tangibile della Tua presenza e del Tuo amore è l’ospedale pediatrico Caritas Baby Hospital, che si basa per il 90% sulla Provvidenza. La struttura si colloca quasi a ridosso del muro e del check-point che divide in due la città di Betlemme, e ciò a motivo dell’elevato numero di donne e bambini che muoiono ogni anno di parto o di debolezza dopo ore di sfibrante attesa ai check-point. Proprio su questo terribile muro, sotto al filo spinato, è stato disegnato un grande graffito raffigurante la Madonna, attorno a cui si raccolgono i pochi Cristiani della zona a pregare il Rosario quotidianamente in segno di pace e di azione silenziosa, come l’acqua che poco alla volta fa crollare i ponti (…e, speriamo, anche i muri…).
TAYBEH:Raggiungiamo la città di Efraim (oggi Taybeh), dove Gesù tornava volentieri a trovare Lazzaro, Marta e Maria. Attualmente, Taybeh è l’unico villaggio interamente arabo-cristiano in un complesso di paesi musulmani (a di conseguenza, l’unico villaggio palestinese a produrre un’ottima birra locale, la “Taybeh Beer”). Nuovamente emerge la necessità di dare continuità nell’abitare la propria terra, di formare famiglie numerose perché si crede ad un progetto che và oltre se stessi e la propria generazione. Haboona (Padre/Don) Rael, il parroco di Taybeh, ribadisce con convinzione ed entusiasmo quest’idea, ed insiste sul fatto che, se Dio crea la vita, Egli provvede anche al suo mantenimento: si tratta di un invito e di una provocazione forte per la nostra paura senza nome di mettere al mondo figli.
NAZARETH: Ecco l’inizio della più spettacolare delle assurdità compiute da Dio: diventare uomo. Non dal nulla, bensì dal corpo e nel corpo di una donna, splendida nella sua semplicità, nell’essenzialità e nell’apparente banalità della vita che deve aver condotto. Nel nascondimento di quella ragazza formidabile il corpo femminile assume una dignità elevatissima. Esso è accoglienza per eccellenza, pensato per trattenere in sé la vita, prepararla e ridarla al mondo. Esso è sacrificio e disponibilità nel suo donarsi, farsi casa, letto, focolare, cibo, ristoro e trampolino di lancio per una nuova creatura che si affaccia sul mondo. In senso sia fisico che interiore, il corpo della donna si dona gratuitamente imitando la logica di Dio che “spreca” vita, amore, grazia, che da più del necessario, che ama senza ragione. Passaggio obbligato per ogni vita, anche quella di Dio, qui si tratta del corpo di una donna che ERA una qualunque, ma che non lo è più. Non lo è più stata da quel SI’ spaventato ma fiducioso al tempo stesso, in quell’intuizione di un progetto più grande, in quell’accantonare la paura di sentirsi indegna, in quel giocare tutta se stessa su un progetto nebuloso e strano, bizzarro ed enorme, ma che veniva da Dio.
CAFARNAO E TABGHA (LAGO DI TIBERIADE): A Cafarnao Pietro è stato chiamato, qui ha gettato le reti in nome di Gesù, a Tabgha ha riconosciuto Cristo dopo la risurrezione, qui gli è stato chiesto “Mi ami?” per tre volte. Il primato di Pietro è uno dei paradossi che Dio ci mette dinnanzi, in quanto questo essere primi vuol dire farsi secondi. Non per falsa modestia, non per finta umiltà, ma per lasciare che qualcun altro diventi primo. Essere secondi significa scegliere di stare all’ombra affinché qualcun altro sia messo in luce, e fare ciò senza rimpianti, senza invidie, senza gelosie, ma per scelta, per amore, per la necessità di darsi senza riserve, per investire la propria vita in qualche cosa che ci sorpassa ma che intuiamo darci pienezza.
CESAREA MARITTIMA –SORGENTI DEL FIUME GIORDANO: In questo luogo, oggi al confine tra Israele,Siria e Libano, Gesù ha voluto ritirarsi con i suoi Apostoli per fare il punto della situazione: “Voi chi credete che Io sia?”. Tutta la Sua vita è simile alla logica di questo fiume: per percorrere i 180 Km che intercorrono linearmente tra la sua sorgente e la sua foce, esso crea deviazioni, anse, si sofferma, si da, inonda, investe, spruzza, rende la vita possibile, ed infine sfocia nel Mar Morto sotto forma di rigagnolo insignificante, dopo aver percorso 320 Km. Perché tanto spreco di acqua e di energia? Perché questo darsi gratuito fino a consumarsi e a perdere consistenza? Questo ci ricorda anche lo “spreco”apparente del vino buono alle nozze Cana: perché dare il vino buono agli ubriachi che non lo sanno apprezzare? Simile al Giordano ed al vino di Cana è logica di Dio, quella del darsi, dello spendersi, del giocarsi sull’inutilità, sull’amore e sul dono esagerati, folli, senza logica e senza misura.
GERUSALEMME: Gerusalemme non è solo città santa, ma una metafora della vita, un luogo dove, ovunque tu ti giri, c’è qualche cosa, sia di bello che di brutto, che ti interpella, ti provoca, ti affascina, ti obbliga a delle scelte, ma che ad ogni modo va accettato senza essere giudicato. Il suk arabo è un labirinto in cui ci si perde facilmente e che tanto assomiglia ai grovigli della nostra mente, al caos con cui la memoria custodisce i ricordi, sulla base delle sensazioni che ci hanno trasmesso. Solo quando ci leviamo sulle mura della città e prendiamo distanza da questa sorta di fucina alchemica, il puzzle si ricompone e la sensazione di venire inghiottiti lascia spazio alla meraviglia per la varietà, allo stupore per la convivenza di splendore e sporcizia, al crogiuolo improbabile di un quartiere armeno, uno ebraico, uno arabo ed uno cristiano che vivono gomito a gomito in un equilibrio dinamico. La piscina di Bethesda, dove Gesù ha guarito un paralitico, mette in discussione la nostra effettiva volontà di azione. Guarire è scomodo per tutti, perché significa alzarsi, prendere sotto braccio i propri limiti, le proprie fatiche, le proprie croci e tornare nella quotidianità, lì dove sta il punto dolente. Proprio accanto alla piscina di Bethesda ci accoglie la chiesa S.Anna, la cui acustica è davvero spettacolare e ci fa sentire sulla pelle quanto il canto sia una delle più belle forme di comunicazione con Dio. La forza del canto continua nella nostra partecipazione ai riti di apertura dello Shabbat direttamente al Muro del Pianto, dove i secoli si condensano nei ritmi progressivamente incalzanti dei balli e dei canti ebraici antichissimi e nell’ondeggiare simile a fiammelle delle persone che pregano anche con il proprio corpo. Lungo la strada che ci porterà al Monte degli Ulivi ci accoglie un convento di suore comboniane, il quale è stato circondato da una parte del muro che divide i territori palestinesi da quelli israeliani. Ci coinvolgono i racconti di Suor Alicya, infermiera esperta di ferite da armi, collaboratrice di medici volontari israeliani e sostenitrice di progetti per la riabilitazione sociale di immigrati clandestini, donne violentate e bambini stranieri. Ci racconta di come il suo convento sia attraversato spesso sia da palestinesi che saltano il muro che da militari israeliani in cerca dei primi. Eppure, da lei non si sente neanche una parola di odio, di disagio, di protesta: “dobbiamo essere un ponte tra Palestinesi ed Israeliani”, dice”mettere una mano sulla spalla degli uni ed una sulla spalla degli altri”. In cima al Monte degli Ulivi troviamo una struttura particolare, un chiostro ed un giardino tappezzati della preghiera del Padre Nostro in innumerevoli lingue diverse. Dopo lo stupore di trovarla scritta anche in friulano ed addirittura in “bisiac”, proviamo a calarci nella mentalità di questa preghiera stupenda. Essere figli di uno stesso Padre è il punto di partenza per adottare un atteggiamento diverso nei confronti di chi non ci è prossimo, al di là delle categorie del “giusto o sbagliato”, del “buono o cattivo”, del “migliore o peggiore”. Ti accetto senza giudicare perché siamo fratelli in tutto e per tutto. Non perché siamo bravi, non perché siamo uguali, ma perché siamo figli dello stesso Padre. Ora ci spostiamo in modo da stare faccia a faccia con Gerusalemme. L’osserviamo dal di fronte, come anche Gesù deve averla vista prima di ritornarci per l’ultima volta. Nella Chiesa del “Dominus Flevit” ci accoglie un’immagine tenerissima: quella di Dio come chioccia che raccoglie e protegge con le sue ali i pulcini impazziti e dispersi, metafora degli abitanti di Gerusalemme e di tutto noi. Ed ecco che finalmente raggiungiamo, la sera prima di partire, uno dei luoghi più contraddittori che abbia a che fare con la vita di Gesù e con Dio stesso. Al Gethsemani Gesù piange, medita, suda sangue, si agita, si sconvolge. Anche Lui, come ognuno di noi, viene lasciato solo nel dolore, nell’angoscia di aver operato per niente, nella frustrazione di non vedere i frutti del proprio lavoro, nella paura che esso non continui più dopo di noi. Tuttavia la Resurrezione inizia già qui, nel limite, nel fallimento dei nostri progetti, nel credere che sia tutto perduto. Proprio qui Dio ci fa risorgere, ci tira fuori dal fango, regalando pienezza alla vita limitatissima che abbiamo a diposizione. Il limite ha anche a che fare con l’amore, che lo accetta e lo supera, lo innalza fino a farlo diventare condizione per una fiducia illimitata. L’amore sfrutta il limite a proprio vantaggio, sapendo che il dolore, Limite per eccellenza, non uccide, ma trasfigura; non toglie ma scava tunnel di luce nei recessi dell’anima. Prima di andarcene definitivamente, non possiamo non recarci ancora una volta al Santo Sepolcro, il luogo della Resurrezione, del vuoto che si fa infinito, dell’assenza che diventa certezza e pienezza. Anche oggi ci alziamo prima dell’alba, accompagnati dai canti dei muezzin, ingaggiamo una gara con la luce del Sole per vedere chi ha più fretta di arrivare. Queste mura, all’interno delle quali miracolosamente convivono, pur nelle loro grandi differenze e nei contrasti quotidiani, monaci etiopi, egiziani, russi, francesi, italiani ed armeni, assorbono 24 ore al giorno canti, preghiere e liturgie in lingue diverse, in tempi, ritmi, accenti e toni dei più vari. Il luogo appare strano ad un cattolico che si concentra più facilmente in una chiesa di struttura occidentale, più lineare e meno caotica. Tuttavia, l’impianto orientale della Basilica del Santo Sepolcro è un invito forte alla partecipazione del corpo nella preghiera e nel rapporto stesso con Dio. La nostra, in fondo, è una religione altamente fisica, in cui Dio si incarna in una donna e si fa mangiare nel Corpo e nel Sangue. Da qui l’altissima dignità del corpo, che oggi, carico di stanchezza, sonno, caldo, sudore, emozioni, novità e gratitudine, si prostra al Sepolcro e si svuota da tutto, perché la fatica ha il potere di ridurre anche i pensieri all’essenza. Ti salutiamo così, Gesù, con un corpo stanco per Te, venuto qui per Te, grato a Te. Ti affidiamo tutta la nostra vita, anima e corpo, come uno strumento che si affida alle mani del musicista esperto e che si lascia suonare. Più lo strumento si abbandona, più da esso si sprigiona una musica fantastica. Vogliamo essere il Tuo strumento, la Tua musica,Gesù, in questo pellegrinaggio che inizia appena adesso, quando dobbiamo tornare nelle nostre vite, nella nostra “fossa dei leoni”, a portare le Tue meraviglie in qualunque luogo e situazione ci troviamo.
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